Memoria
C’è una città dentro di me.
È fatta di strade che ho percorso. Chilometri di braccia che ho stretto. Fiumi di parole. Immagini che vorrebbero essere indelebili. Baci, carezze e pugni nello stomaco. Vittorie e delusioni diventate cattedrali. Monumenti fieri dai profili femminili. Case abbandonate abbellite da graffiti colorati, tentativo di dare un degno vestito a chi ora è assenza.
È una città che appare e scompare dalle cartine. È diventata subdola. A volte la cerco per ore tra i miei pensieri confusi e non la trovo.
La chiamano Alzheimer, questa malattia che cancella la vita delle persone. Ne soffro da cinque anni.
È una gomma che si fa strada dentro di me, sempre più grande. Porta via ogni giorno un pezzo e l’uomo che sono stato vacilla.
Ho provato con tutte le mie forze a non dimenticare. Ma è una sensazione disarmante aprire armadi e cassetti nella mia testa e trovarli vuoti.
Anche lo specchio non mi è amico certe sere. Ci passo parecchio tempo davanti. Accarezzo la barba bianca e non riconosco quei lineamenti. Provo terrore. Mi concentro sugli occhi e solo lì mi rivedo. È un rituale che ripeto prima di coricarmi. È il mio ultimo appiglio a una normalità che lentamente scivola nell’oblio.
Quando questo riflesso non avrà più niente di familiare da restituirmi, ogni cosa perderà importanza.
Mercoledì 4 novembre ore 7.35
Apro gli occhi.
Improvvisamente mi accorgo di essere nella mia camera da letto.
Li chiamano momenti di lucidità. A volte durano solo qualche minuto. A volte se sono fortunato mi accompagnano per un paio di ore.
Mi alzo non curante delle ginocchia che scricchiolano. Mi dirigo a passo spedito verso la cucina. Sul muro, esattamente al suo posto, un calendario recita una ricorrenza. Un cerchio rosso e una scritta incerta confermano le mie convinzioni.
La tentazione di infilare una giacca e correre fuori è forte. Ma guardo le mie incerte gambe e il pigiama color crema che le copre coraggiosamente: questa missione merita più decoro.
Mi rilasso e accendo la moka. Ho deciso di essere positivo.
La casa è una distesa di post-it gialli. Sembra una primavera fiorita in una Kyoto di cellulosa. Se non mi soffermo a leggere le banali indicazioni che recitano in stampatello, mettono pure allegria. Colorano una carta da parati sbiadita e un arredamento fermo agli anni ottanta. Vecchio, o più gentilmente vintage.
Assaporo un forte caffè nero e fumante alla finestra. I dettagli chiari del giardino e della porzione di strada che intravedo mi tengono ancorato e ben saldo al porto sicuro che ospita la mia memoria questa mattina.
Lo spoglio ciliegio che riposa nel suo letargo invernale mi riempie il cuore di tenerezza. La giornata in cui mio figlio lo piantò, fiero in mezzo al prato, è come un vecchio film che si ripete nella mia testa. Una nostalgica pellicola in bianco e nero dal retrogusto caldo e magico.
Lavo le stoviglie di fretta, controllo gas e fornelli opportunamente spenti e mi dirigo verso il bagno. Non alzo gli occhi sulle foto che scorrono ai lati del corridoio. Non ne ho bisogno. Ricordo ogni viso, ogni sorriso, ogni angolo di cielo. Ed è una sensazione meravigliosa.
Il bagno è ora ostaggio del vapore, una doccia bollente ha rinvigorito la mia pelle. Passo una mano sullo specchio per farmi strada tra la condensa e decido di tagliarmi la barba. Non voglio filtri tra me e Lei oggi. Ogni carezza che sia degna di questo nome, merita un contatto vero. Ogni bacio esige labbra vive. Ogni gesto d’amore pretende sincerità.
Ci metto un po’ a dissotterrare il mio vecchio pennello da barba e la crema. Sono anni che non li uso. La lunga cascata d’argento che scende sul mio collo ne è testimone. È la maschera per proteggere il mio viso dalle intemperie del tempo e dalle sue incertezze. Solo mio figlio prova a sistemarla una volta al mese quando viene qui per il fine settimana.
È così caro il mio Andrea.
Soffre tanto per la mia situazione. Chiama spesso e più di qualche volta l’ho sentito piangere in bagno quando dorme qua. Non deve essere facile vedere il proprio padre dimenticare il tuo viso. Una coltellata al cuore. E il mio chiedere scusa ogni volta è uno strazio.
Affondo la lama in una rigida foresta di alberi grigi. Ad ogni colpo di falce la mia faccia rivela un particolare in più. I lineamenti, fortunatamente, rimangono quelli che conosco. Vittorie e sconfitte immortalate in sincere rughe. Profonde vallate scavate da fiumi di lacrime, scelte e meravigliosi sorrisi.
Un colpo di asciugamano pulisce gli ultimi spruzzi di neve su questa pianura nuda che ora è il mio volto. Rivedo mio padre per un attimo riflesso in me. Severo, intransigente, ma con lo sguardo malinconico e dolce. La sferzata del dopobarba mi riporta al presente.
Mi dirigo verso la camera per vestirmi.
La sedia accoglie una serie di abiti accuratamente piegati. Sto già infilando i pantaloni di velluto marrone quando mi blocco. Sento nella testa le sue urla sul mio essere trasandato e privo di gusto. Sorrido.
Con un dietro front apro l’armadio e libero dal cellofan il mio abito migliore. È un completo grigio scuro con camicia bianca accompagnato da un cappotto nero. Nonostante la giornata non sia delle migliori, decido di non mettere nessun copricapo. Voglio sentire il vento tra i capelli, lo schiaffo dell’inverno sulla testa.
Ricordo perfettamente il giorno in cui comprai insieme a lei quel vestito. Mi costrinse a spendere una cifra esagerata per quell’epoca. Mi disse che potevo usarlo per i prossimi dieci anni se mi tenevo in forma. Compleanni, anniversari importanti, Natali.
Non eravamo mai stati bravi io e lei con i traguardi. Ottimi podisti, dediti al sacrificio ma con scarsa attitudine alle medaglie.
Mi preparo con cura. Spazzolo il cappotto e procedo a lucidare anche le scarpe.
Alla fine lo specchio ripaga il suo debito col tempo. Sono impeccabile.
Prima di mettere piede fuori dalla porta mi infilo al collo il cartellino di riconoscimento.
L’ho sempre odiato.
È la mia lettera scarlatta. Il mio dire al mondo che sono un vecchio rimbambito. Lo guardo con aria di sfida. Una foto sbiadita, le mie generalità. Una filastrocca recita di chiamare un numero di telefono in caso fossi trovato in stato confusionale o in pericolo.
La precarietà è la mia condanna. La precarietà di non esistere più.
Scendo le scale di cemento del mio residence rosso mattone in uno stato invidiabile di grazia. Le gambe, i pensieri e i miei occhi rispondono perfettamente.
Ho due posti da visitare. Non posso permettermi di perdere altro tempo.
Sono costretto però a rallentare il passo. La bellezza dell’autunno mi colpisce la vista come un maglio.
Il tappeto rosso di foglie fiammeggianti che colora il marciapiede è uno spettacolo. Anche gli alberi spogli nascondono il loro lato spettrale e allungano dita esili al cielo in segno di un allegro saluto.
Il grigio che mi sovrasta non è triste, monotono. È eleganza e aristocrazia.
Basterebbe poco per rendere questa città un posto felice e accogliente per una persona anziana. Niente ospedali, cliniche e farmacie. Quelle ci sono già e funzionano. Quelle rappresentano il nostro dolore, la vita che volge al termine. Il lato di una medaglia che non può sfuggire alla matematica esistenziale di chi ci ha dato un limite di tempo per sostare su questa terra.
Bisognerebbe invece riempire queste strade di memoria.
Di luoghi dove i nostri ricordi possano fiorire e regalare ancora colore e vita.
Riaprire posti familiari ed accoglienti. La vecchia drogheria di Maria, il bar sport di Beppe e le sue interminabili battaglie a briscola.
Costruire enormi panchine dove nonni e nipoti possano tramandarsi storie di pace e racconti di guerra.
Club di lettura. Dove le parole su carta si mischiano ai ricordi e donano ai libri quel sapore unico di vissuto che solo una voce navigata può regalare.
Memoria.
Cammino e immagino questo posto prendere vita tra i fantasmi di amici che mi hanno lasciato e giovani ragazzi che ascoltano i loro consigli.
La storia insegna. Ogni angolo, ogni nome e ogni libertà che oggi sbandieriamo sono passati attraverso il sacrificio di qualcuno. Mostrare quel processo di rinuncia che poi ha generato conquista, sarebbe gratificante e chiuderebbe perfettamente il cerchio.
Memoria.
Scendo verso la piazza che raccoglie la fine di questa strada e assaporo il gusto di questa parola che stamattina ha deciso di farmi compagnia nel mio solenne viaggio.
Ogni cosa passa attraverso essa. Il gusto di un caffè, la sensazione di un bacio. Ogni nostro sentimento. Tutto quello che viviamo è memoria. Torniamo nei posti che ci hanno fatto stare bene, mangiamo le cose che ci sono piaciute. Usciamo di nuovo con quella ragazza perché ci ha dato calore e sensazioni buone.
La nostra vita senza la percezione del passato è solo un’autostrada a senso unico senza sapore e colore. Una catena di montaggio tra esseri privi di emozioni. Un posto per persone sole.
Memoria.
Accarezzo il cartellino di riconoscimento che ciondola al mio collo, quello che mi distingue da un cane e penso a come questa malattia sia terribilmente infida. Un mostro che ti segue e divora la strada dietro di te. Pezzo dopo pezzo. Isolandoti e tagliandoti fuori non dal mondo, ma dalla tua stessa vita.
Accelero il passo.
I miei occhi ora accolgono tutta la bellezza della piazza. La voce chiassosa del mercato che ogni mattina la popola è confortante e allontana da me spiacevoli paure.
Cerco il bancone dei fiori. Una giovane ragazza ha rilevato l’attività di famiglia e con entusiasmo e amore ha donato un nuovo vestito a quel grigio camion che ora è il suo negozio. Mi viene vicino in aiuto.
“Buongiorno signore, come posso servirla?”
Le sorrido e ricambio il saluto.
“Ho bisogno del mazzo di fiori più bello che riesca a creare. È per una persona speciale, in un giorno speciale. Se può legarlo con un nastro dorato mi farebbe felice. Non badi a spese, ci metta solo tanto cuore e colore. Grazie.”
La ragazza, sorpresa e piacevolmente colpita dalla mia richiesta, mi dice che ho le idee chiare e si mette subito al lavoro. Traffica per circa dieci minuti tra petali e nastrini e poi mi consegna il risultato con soddisfazione.
È bellissimo. Le tonalità vanno dal rosso fuoco all’arancione per poi sfumare sul bianco ai lati. Un profumo gradevole esce dalla carta dorata che lo avvolge.
Esprimo a lei tutta la mia gratitudine. Pago e le lascio una notevole mancia.
Lei è quasi commossa e mi raccomanda di ripassare a dirle se i fiori sono piaciuti. Le mento dicendole di sì. Purtroppo domani sarà solo un’estranea dal gradevole sorriso per me.
Guardo nervosamente l’orologio. Per un secondo le mie idee si fanno confuse e l’obiettivo della mia missione vacilla. Mi appoggio a un palo della luce e stringo gli occhi. Cerco di riprendere in mano le briglie di quel cavallo selvaggio che senza controllo guida i miei pensieri. Ci riesco. Respiro profondamente e torno a essere me stesso.
Ho smesso di pregare da tempo, ho i miei motivi per essere arrabbiato con Dio o chi per lui. Ma comunque gli offro una tregua. Ho bisogno anche del suo aiuto oggi.
Giro a destra e mi incammino veloce su una stradina in salita che si allontana dal centro. Ci vogliono dieci minuti per arrivare in cima ad una collinetta che domina la vista sulla città. Spingo un vecchio portone in ferro battuto e sono dentro.
Poche persone stazionano silenziose nel cortile. Il custode inerpicato su una scala traballante cerca di dare la forma perfetta ad una siepe.
Proseguo costeggiando il muraglione di sassi e al terzo sentiero giro dentro quel dedalo di ricordi. Conto sette e poi mi fermo. Nel tragitto ho recuperato una leggera sedia pieghevole che ora apro davanti a lei. Mi siedo, le appoggio i fiori ai piedi.
“Ciao amore.”
Stella si chiamava. Era mia moglie. La conobbi quando il mio cielo era giovane e privo di luci. E proprio come un astro illuminò la mia vita.
Mi insegnò a vivere, io orfano dei genitori da poco tempo e affidato a uno zio scorbutico. Avevo vent’anni quando mi prese per mano e non mi lasciò più. Il nostro primo appuntamento fu in una biblioteca. Io impegnato a fare il giullare, lei seria a leggermi una poesia. Cambiò il mio mondo. Ero un puzzle sbagliato che aveva bisogno di ordine e lei lo fece. Una vita meravigliosa, un figlio cresciuto con sani principi.
Della mia malattia vide solo la luce dell’alba, il mio dimenticare cose futili, come l’appuntamento col medico o le chiavi di casa in qualche tasca. Si fece ancora più brillante e faro per me.
Poi un cancro se la portò via in tre mesi. Mai una lacrima, mai un lamento.
Mi lasciò in un pomeriggio d’estate. Le cicale a bucare un religioso silenzio e lei, bella come sempre, a scivolare nel suo sonno più profondo come addormentata.
Trovai solo mesi dopo una lettera per me chiusa in un cassetto. Era ancora incompleta ma esprimeva completamente il suo significato.
Parlava di noi, del nostro percorso e di quanto ne sia stata felice. Parlava anche di un sogno che aveva fatto. Una cerimonia che ci vedeva festeggiare il nostro cinquantesimo anniversario.
Era consapevole che sarebbe stato un traguardo impossibile e se ne rammaricava.
Chiudo gli occhi ormai lucidi e pieni di lei. In tasca la mia mano stringe la carta di quella lettera che ha viaggiato con me fino a qui. Mi guarda da quella piccola foto che ho scelto per rappresentarla sul marmo scuro. I capelli raccolti, gli occhi nocciola dolci e furbi. A lato alcune parole in lettere d’argento recitano la frase di un film che adorava e che io ho voluto imprimere qui:
“NON MI RICORDO NIENTE IN CUI NON CI SEI TU!”
Compreso il punto esclamativo. Ed ora quel monito vive per sempre dentro di me.
Mi alzo in piedi e mi faccio serio. Raccolgo il mazzo di fiori da terra.
“Buon anniversario amore mio. Ho mantenuto la promessa. Sono cinquanta oggi e volevo dirti che mi manchi tanto.”
Mi avvicino alla lapide verso il vaso ma all’improvviso accade qualcosa.
Una forte luce bianca invade la mia testa e come una bufera di neve cancella ogni traccia. Di me, dei miei pensieri e dei miei passi.
Di colpo sono nessuno in mezzo a un cimitero che non conosco, in un tempo indefinito. Stringo incomprensibilmente dei fiori in mano che sembrano caduti dal cielo. Mi guardo confuso e spaesato e cerco un appiglio intorno che non arriva.
Ci sono decine di nomi estranei e altrettante fotografie che non dicono niente.
Barcollo tra le tombe leggendo e rileggendo. Maria, Antonio, Luigi, Stella, Silvia.
Il nulla.
Il mio cervello ha chiuso completamente il sipario e io, unico spettatore di questa terribile tragedia, rimango lì, seduto al buio.
Mi fermo davanti a una foto di una bambina.
Le date dicono che aveva otto anni quando è volata in cielo. La vita sembra avere un grosso debito con lei. Appoggio delicatamente i fiori davanti al suo innocente sorriso sperando che questo suo breve viaggio, qui sulla terra, le sia stato lieve.
Poi piango.
Per lei, per me, per tutto il mondo che non ricordo.
E sono di nuovo solo.
Nuovamente un puzzle senza forma.
Si avvicina il custode attirato dal mio singhiozzare e vagare senza meta.
“Va tutto bene signore?”
Lo abbraccio.
Gli mostro il cartellino.
Randagio senza memoria.