LA SECONDA DOMANDA
SCEGLIERE DI VEDERE COME ESERCIZIO DI RESPONSABILITÀ
Credo che, in linea generale, non vediamo ciò che non vogliamo vedere; ciò che potrebbe mettere in crisi una posizione, perché di privilegio, di potere, o semplicemente comoda; ciò che ci porrebbe di fronte ad una scelta; ciò che, infine, altri non ci permettono di vedere.
Scelgo di tralasciare una declinazione individuale della questione perché mi interessa molto di più indagare cosa accade quando ciò che non vediamo riguarda tutti e tutte, quando il non vedere avvantaggia solo una parte delle società.
Ho in mente un libro scritto da Tina Merlin e pubblicato nel 1983: “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont”. È stato il primo libro scritto da una donna che ho acquistato, era il 1997; l’ho riletto solo qualche mese fa, con gli occhi un po’ più aperti grazie a qualche altra lettura. Il titolo «come si costruisce una catastrofe» riassume, senza possibili malintesi, la posizione di Merlin, che sceglie di porsi in netta contrapposizione rispetto alla narrazione comune di quanto avvenne nel 1963. Né la natura né insondabili disegni divini hanno provocato la morte di 1.910 persone: si è verificato un evento prevedibile, perché prodotto di una serie di altre azioni. Il racconto della fatalità e, specularmente, l’occultamento della verità sui rischi legati alla presenza di una diga su un terreno non adatto, hanno permesso di non vedere le responsabilità di chi permise di costruire, di chi materialmente costruì, di chi omise di controllare.
Per superare il rischio di non vedere, per me, la chiave di volta è scegliere, e in particolare scegliere di non restare neutrali e fare propria la responsabilità che deriva ad ognuna e ognuno di noi dal semplice fatto di stare al mondo. Per le riflessioni che ho elaborato finora, credo che l’esercizio di questa responsabilità passi per la necessità di porre sempre la “seconda domanda” e di avere la storia come riferimento. Scelgo di assumere una posizione critica nei confronti delle risposte che ricevo e la seconda domanda, il più delle volte, è “chi ci guadagna?”, così come “chi sceglie?”. In virtù di queste domande, rispetto alla storia del Vajont, non accetto l’umana compassione come reazione alla morte di tanta gente, perché il non aver permesso di vedere la realtà ha garantito vantaggio al potere economico e impunità a quello politico. Perché significherebbe non dare il giusto peso al fatto che questa gente non viveva in una grande città, ma sui versanti di una montagna, comoda da sfruttare per fare profitto secondo una logica per cui lo sviluppo è solamente economico e viaggia in un’unica direzione.
Penso ad un altro libro – “Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio”, del 2017 – e credo che quella storia sia imprescindibile per affrontare, oggi, la storia di una diciannovenne, morta bruciata e legata al letto di un servizio psichiatrico dell’avanzato Nord Italia. Senza la storia di Antonia Bernardini – morta a 39 anni, nello stesso modo, in un ospedale psichiatrico giudiziario nel 1974 – credo sarebbe molto più difficile vedere tutto ciò che sta prima, e intorno, e dietro, alla morte, 45 anni dopo, di un’altra giovane donna, arsa viva, in un’istituzione pubblica.
Gli eventi e le storie che ci precedono, il confronto, le differenze, le analogie, le domande già poste, le risposte già date, possono permetterci di andare oltre la versione ufficiale e lasciare da parte le spiegazioni semplici, per scendere in profondità e, davvero, vedere “ciò che non vediamo”. E quando ci riusciamo, secondo me, accade qualcosa che può fare la differenza nell’esperienza umana: se ciò che, fino ad un momento prima, poteva apparire naturale, o casuale, diventa una costruzione, un prodotto di scelte, allora questo qualcosa diventa aggredibile, modificabile. E da questo passaggio possono scaturire il riconoscimento del potere che ciascuno/a di noi ha, la volontà di intervenire e la fiducia che almeno possiamo provare a cambiare le cose, cercando il più possibile di goderci il tentativo.