TOP
  /  Rubriche   /  La striscia   /  Senza uscita

Senza uscita

Primo piano

Primo Piano – Il fusto dell’albero – L’età adulta

 

Mi chiamo Antonia ho 38 anni e quella distesa sul divano sono io.

Mi sono addormentata così. Vestiti e stanchezza ancora addosso, bicchiere di vino vuoto rovesciato sulle gambe, tv accesa a illuminare una contemporanea natura morta in scena nel mio appartamento.

Probabilmente sto sognando. Le mie labbra si muovono leggermente ad inseguire un discorso che non ricordo perfettamente, i miei occhi sotto le palpebre rincorrono vecchie diapositive del mio passato che non mi lasciano in pace.

Già, il passato. Per quanto uno si impegni a nasconderlo e cancellarlo, il tuo cervello continua a sfogliarlo e dissotterrarlo, come un segugio in cerca del suo osso migliore, un vecchio nonno pieno di ricordi e storie per nipoti curiosi.

E così, anche questa notte, mi ritrovo in quella vecchia casa che è stata la mia infanzia e adolescenza. I muri ingialliti senza quadri, il costante profumo di gelsomino che entra dalle finestre, il blu del mare che riempie di riflessi il soffitto. Le urla di mio padre che salgono le scale e anticipano lui e la sua cinghia.

Per una ragazza che vive in piccolo paese del sud la vita è un bivio. È in discesa se decidi di non alzare la voce, la testa. È terribilmente in salita se solo ti imponi di essere te stessa. E io in quell’inizio d’estate avevo deciso di amare Michela, di non scegliere la scuola professionale che tutti i miei cugini stavano frequentando, di tagliarmi i capelli cortissimi. Erano solo richieste di aiuto, urla di attenzione, bombe contro i muri di incomprensione e silenzio che mio padre, da buon muratore, alzava di un metro al giorno.

Ma quel giorno le cose cambiarono. Spalancò la porta e non mi trovò rannicchiata sul letto a proteggermi con un cuscino. Ero in piedi, fiera davanti a lui. Caricò la spalla per sferrare il colpo codardo ma non mi mossi di un centimetro. Capì così che la sua bambina era ormai donna. La sua cintura, la sua prepotenza e sua figlia erano già lontane anni luce da lì.

Dovrebbe essere un bel ricordo credo, il giorno della mia rinascita. Ma fu anche doloroso. Seppi in quell’istante di aver perso una famiglia, un nido. Niente mi poteva più tenere legata a quel posto.

Mia madre capì e non si oppose. Strinse a sé ancora di più il mio piccolo fratellino e si limitò a guardarmi volare via da quella che loro chiamavano casa, ma che in realtà era solo una gabbia di dolore, sogni infranti e sbarre di rassegnazione.

Mi svegliai di soprassalto. Il bicchiere cadde sul pavimento, si scheggiò ma non si ruppe. Metafora perfetta di come mi sentivo: segnata, provata ma ancora perfettamente in grado di assolvere i miei compiti.

Mentre il mondo pregava in ginocchio di rimane chiusi in casa, io ero chiamata a uno sforzo ulteriore là fuori. I turni al lavoro erano diventati massacranti. Le richieste di infermieri da tutti i reparti erano diventate insostenibili. L’intero ospedale stava lentamente confluendo verso il padiglione 7, quello adibito agli infetti di Covid-19. Un fiume nero che si ingrandiva e ingoiava lentamente le nostre forze, le nostre vite.

Amavo il mio lavoro. Avevo lottato così tanto per diventare medico. Il mio primo anno all’università era stato faticoso. Ogni sera mi adoperavo come cameriera e la mattina seguivo le lezioni. Dividevo una piccola stanza con altri due studenti.

Mi dovetti arrendere però. Le tasse universitarie, le bollette, i mezzi di trasporto. Il mio conto in banca sanguinava, e il mio stomaco troppe volte brontolava. Misi da parte anche quel sogno, in un cassetto ormai stracolmo e in pochi anni mi diplomai infermiera. Ora seguivo un corso di specializzazione come assistente in sala operatoria, ma questa guerra aveva bloccato tutto. Non era tempo di pensare al futuro, ma di rimboccarsi le maniche e cercare di salvare il presente.

Non essere diventata medico, per me forse era stata una salvezza. Mi permetteva di stare a contatto con decine di pazienti in corsia, essere l’unico loro ponte tra solitudine e speranza. Aveva rotto la diga di indifferenza e durezza che la vita aveva eretto per proteggermi, e ora mi sentivo libera e in pace col mondo. Una persona migliore.

Mi girai sul fianco e il mio sguardo si posò su un piccolo angolo di cielo sfuggito alla tenda. Una stella solitaria scintillava, lontana milioni di chilometri da qui. Era pazzesca la strada che un raggio di luce poteva compiere per esistere. Dicono che molti degli astri che noi riusciamo a vedere in realtà siano già spenti. Pensai che funziona così anche qui sulla terra. Più brilli in vita, più sopravvivi nel cuore delle persone dopo la tua morte.

Una lacrima mi rotolò sulla guancia. Era stata una giornata difficile. Un signore di ottant’anni ci aveva lasciato oggi. Se ne era andato da solo, in un’asettica camera di isolamento. La foto dei figli sul comodino, un libro di poesie sgualcito ai piedi del letto. Lo avevo accompagnato in questo suo importante e ultimo viaggio tenendogli la mano, attraverso ingiusti e crudeli guanti di lattice. Aveva sorriso e ringraziato con gli occhi fino all’ultimo.

Era questo il mio lavoro. Combattere la paura.

Nella mano di chi ti vuole bene, è il posto più sicuro del mondo. Non credi?

Richiusi gli occhi. La sveglia avrebbe suonato di lì a poco.

Nato a Cividale del Friuli nel 1980. Diplomato in elettrotecnica trovo impiego come antennista a Udine. Del mio lavoro adoro vedere le cose dall'alto e avere come ufficio il tetto e il cielo. Amo scrivere poesie d'amore e storie, per cercare di capirmi meglio. Avrei voluto studiare altro, laurearmi in filosofia e magari vincere Wimbledon. I miei compagni di scuola dicevano che ero un buon ascoltatore ma con il cognome lungo e impronunciabile. Sul comodino ho la biografia di Andre Agassi “Open”, una raccolta di poesie di Bukowski e “Aspro e dolce” di Mauro Corona. Domani vorrei veder pubblicato il mio libro e giocare un'oretta a tennis con Federer.